Napoli negli anni delle neoavanguardie
La pittura tra gestualismo informale e abbrivio surrealista
BIASI CASTELLANO COLUCCI DEL PEZZO DI BELLO FERGOLA PERSICO
a cura di Andrea Della Rossa
testo di Massimo Bignardi
14 Gennaio – 25 Febbraio 2023
Prorogata al 30 giugno 2023
Inaugurazione sabato 14 gennaio ore 18:00
Sabato 14 gennaio, alle ore 18:00 sarà inaugurata la mostra “Napoli negli anni delle neoavanguardie”, dedicata a sei protagonisti della scena artistica napoletana tra anni Cinquanta e Sessanta, vale a dire dalle esperienze nucleariste di Mario Colucci, Guido Biasi e Mario Persico, al Gruppo 58 alla pittura-oggetto. In mostra tredici opere storiche di Guido Biasi, LUCA (Luigi Castellano), Mario Colucci, Lucio Del Pezzo, Bruno Di Bello, Sergio Fergola e Mario Persico
“Il periodo a cavallo tra la seconda metà degli anni Cinquanta e i primi dei Sessanta – scrive Massimo Bignardi –, che ha il suo apice nel 1958, anno della pubblicazione del Manifesto del Gruppo 58, è stato nella sua complessità segnata da movimenti, da eventi ma anche dall’attività di riviste. Anni che, certamente, hanno segnato un effettivo incontro e confronto paritetico con le neoavanguardie culturali nazionali ed europee. Una stagione magica, anche se l’aggettivo non definisce la tenuta della complessa situazione che, per nulla acritica rispetto a quanto accade contestualmente in altre capitali del vecchio continente, come anche sulla scena newyorkese, è altresì rivolta a tener alto il dibattito tra il presente che la città vive e il suo ‘territorio’ antropologico. Un dato questo che traduce negli artisti l’evidenza di una presa d’atto della propria identità immaginativa, quindi esistenziale, posta, per alcuni di essi, alla luce di un abbrivio surrealista e di una riconsiderazione del dialogo della pittura con il proprio referente, in chiave di una effettiva presa di contatto con l’oggetto, fino a quel tempo considerato unicamente nella sua spoglia raffigurativa.
Il Sé si specchia nel Sé collettivo, nutrendosi di archetipi che portano come dote la ricchezza di invenzioni di immagini sulle quali agiscono le analogie e, al tempo stesso, le metamorfosi cui soggiacciono nella pratica creativa dell’arte. «I seni sono occhi o monti – scriveva Mario Persico sulle pagine del primo numero di Documento Sud – e gli occhi laghi di colore. Ogni Cosa è un momento di una perpetua metamorfosi».
È il segnale di una nuova realtà culturale, dagli orizzonti aperti, con artisti pronti ad assumersi le responsabilità del proprio ruolo dando vita a quel ‘rinascimento napoletano’ che, avvertiva Dorfles dalle pagine della rivista poc’anzi citata, «costituisce uno dei fenomeni artistici più sorprendenti di questo dopoguerra. Dei più sorprendenti perché dimostrano ancora una volta come, malgrado tutto, certe zone chiave del mondo abbiano una loro vitalità autonoma, misteriosa, criptica, che di tanto in tanto esplode come quei funghi che dopo anni di siccità riappaiono negli stessi tratti di un prato o di un bosco, tra gli stessi alberi antichi». Alberi antichi: l’allusione era forse alla realtà culturale accademica, alle strutture organizzative della conservazione ma anche della promozione della cultura artistica, al mondo universitario improntato dall’ombra estesa del crocianismo imperante. «Il cosiddetto ‘buon senso’ – avvertiva Persico – ci ha definitivamente rotto le scatole – esso è flatulento», aggiungendo che la «politica di neutralità professata da quelle categorie parassitarie, conservatrici di sogni defunti, ha finito col disgustarci: come pure l’insulso confronto di sentirci continuamente difesi dal contagio dell’ignoto dagli accorti igienisti dello spirito e della mente, eterni mitigatori di vitali tensioni». Giovani grazie ai quali, anche gli artisti della generazione precedente, penso in primo luogo a Renato Barisani, Antonio Venditti e Mario Colucci, a metà del decennio cinquanta docenti dell’Accademia di Belle Arti di Napoli, avvieranno una nuova stagione creativa: i primi due, dopo la parentesi concretista (dal 1950 al 1955) approdano a fine decennio in ambito Informale, mentre Colucci, artefice della compagine napoletana della ‘pittura nucleare’, declinerà impaginati pittorici ove il filamentoso groviglio di segni lascia il posto ad una sorta di lirica visionarietà.
Ciò che mi interessa di questo periodo, fatto registrare dalle esperienze di un vasto gruppo di giovani artisti napoletani, è il passaggio da una dimensione della pittura al suo smarginare al di là della superficie della tela o di altro supporto, determinatosi da un fermento che si nutriva sia degli echi dell’analogismo psicologico di eredità surrealista, sia dalla densità di una materia cosmogonia; altrettanto, ctonia, quindi legata alla terra, alla sua capacità di materia fertile com’è il caso dei dipinti di Barisani tra il 1959 e il 1962 o, come vedremo innanzi, delle sculture di Venditti. Dalla capacità di Mario Colucci di farsi largo nel movimento della pittura nucleare italiana, attingono le esperienze, a metà degli anni Cinquanta, di Guido Biasi e di Mario Persico, ai quali si affiancherà, di poco più tardi, LuCa (all’anagrafe Luigi Castellano) e Lucio Del Pezzo.
Progressivamente, già dall’alba del nuovo decennio, la pittura si appropria di combine oggettuali, andando incontro all’oggetto, alla sua presenza tra le ‘cose’, artefice di un nuovo vitalismo immaginativo, strumentale ad una mise-en-scène del fermento drammatico, apocalittico, mistico, ironico, ludico, erotico, blasfemo, irrazionale proprio del profondo ‘napoletano’. È quanto palesano, già alla data del 1961, le opere di Persico, di Del Pezzo, di Bruno Di Bello, di Sergio Fergola e, poco più tardi e con maggiore evidenza, di Bugli, Matarese, Di Fiore, Diodato, Paladino, Panaro, Desiato, Pappa ai quali potremmo aggiungere anche quelle di Errico Ruotolo e di Mario Carotenuto, per quest’ultimo contenute nella breve stagione tra il 1964 e il 1965. Il campo della tela o della tavola è luogo ove l’artista non è testimone, bensì artefice di una caduta nel magico e chiede al fruitore di compartecipare all’azione creativa dell’opera.
Si fa largo così, aggiornandolo in contrapposizione dialettica, quanto già avanzato, dal 1955, da Robert Rauschenberg con i combine object che, con altri artisti statunitensi, aveva esposto in occasione della mostra, curata da William Seitz, The art of assemblage allestita al MoMA a New York nel 1961, e contestualmente dai pittori che, dal 1961, si ritroveranno nelle file del Nouveau Réalisme, teorizzato da Pierre Restany. L’oggetto tratto dalla quotidianità, è assunto dagli artisti napoletani nel suo carattere simbolico, quindi non recuperato dal vasto repertorio di oggetti che aveva invaso la quotidianità delle metropoli, ma anche delle città, vitalizzate lungo la penisola dal boom economico. La natura dell’oggetto al quale guardano questi artisti, in particolare quelli di Linea Sud, sottratto all’interno di un habitat che è già accumulo di oggetti-feticci, si discosta significativamente dalla natura simbolica che i newdadaisti avevano dato ai loro assemblages, convertendo l’effimerità delle cose, considerando cioè gli oggetti «non solo come ingredienti compositivi – rilevava Dorfles – ma come simboli d’una particolare situazione esistentiva».
Altrettanto dall’inquadramento dell’oggetto in dimensione polemica, alla quale non erano apparsi immuni alcuni dei novorealisti sostenuti da Restany. La pittura-oggetto, per gli artisti campani, si combina in una dimensione spaziale che è quella del popolo, nella sua effettiva definizione di comunità, tenuta insieme da un forte collante identitario”.
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