H. H. Lim
“parole”
25 maggio – 29 giugno 2007
Inaugurazione venerdì 25 maggio ore 19
A cura di Giacomo Zaza
Il percorso di Lim si caratterizza in modo particolarmente sfaccettato e polivalente in una interagenza tra le tracce del mondo occidentale telematico e informatizzato e i reperti visivi di spazi orientali. La sua ricerca si pone in alternativa sia rispetto alla rigidità e perentorietà delle esperienze processuali, che ai mezzi artistico-estetici largamente smaterializzati delle aree neoconcettuali, operando su un piano di flessibilità e condivisibilità verso le dinamiche del reale.
Mentre l’“arte impegnata” racconta la Storia e filosofeggia sull’etica, Lim favoleggia di Buddha, guardiani di templi, di parole mute che non esprimono altro se non la loro naturalità vertiginosa, al limite della espressione semantica, o la loro pagana riproposizione.
Che cosa l’artista cino-malese narra veramente lo si capisce dalla ambivalenza con cui traccia scritte rovesciate senza comunicare un pensiero organico: dal fatto che le nostre fantasie di associazioni sono suggerite, più che da discorsi strutturati, da motti brevi e sibillini. Si tratta di frasi prelevate dalle fucine mediatiche (giornali, insegne, ecc.), spesso accostate o sovrapposte a raffigurazioni di divinità buddiste, macchine belliche e figure orientali. Sono frasi che marcano una ambiguità semantica, votate al limite di un doppio contestuale.
La dimensione comunicativa dei media implica spesso un voler rapidamente transitare verso ciò che è utile e funziona, impedisce di indugiare, porta a vedere l’intera esistenza come un frettoloso presente sotto l’assillo del bisogno e dell’efficienza. L’immagine-gesto di Lim invece è indugiante, intransitivo, porta a godere del segno e del rimando, ad accogliere i confini del paradosso e dell’ironia.
Nelle opere Parole, spesso, una figura maschile disegnata su pannelli neri, compie alcuni gesti delle mani seguendo quei movimenti codificati dal linguaggio gestuale dei sordomuti. Qui il significante diviene un puro suono, una pura traccia grafica che continua a sfuggire, ovvero che non è riferibile a una logica dell’informazione e si limita a supporre una serie di possibilità associative. Tutta la struttura si basa su un gioco di rapporti e sovrapposizioni di significante e contenuto, tra scritte rovesciate scavate nel gesso e il contesto allusivo-descrittivo dell’immagine di fondo.
Lim elimina il riferimento diretto al connotato intuitivo, il rispecchiamento, di una disposizione della mente e dell’anima, ad una equazione formale. Predilige una allusione che va oltre l’opera, ma da cui l’opera dipende e in questo suo dipendere si descrive.
L’artista Lim “ci illumina” affermando che “guardare con gli occhi della mente porta alla cecità”. Per cui ciò che è dato vedere dipende anche da come lo si guarda.
Le presenze si pongono al di là di ogni sistemazione logica e interpretazione analitica. Giacché il gesto, la risposta apparentemente insensata può offrire al fruitore quell’“illuminazione Zen” attraverso cui ritenere che tutte le nostre costrizioni intellettuali falliscono nel tentativo di afferrare la realtà ultima delle cose, e che questa può essere raggiunta solo con un’improvvisa e imprevedibile intuizione.