
Avanguardie Artistiche a Napoli
tra gli anni ’50 e ‘60
BARISANI BIASI CASTELLANO DEL PEZZO FERGOLA PERSICO TATAFIORE
a cura di Andrea Della Rossa
testo di Jacopo Ricciardi
giugno – settembre 2025
Inaugurazione sabato 7 giugno ore 18:00
Sabato 7 giugno alle ore 18 la galleria “area24 SPACE” inaugura la seconda mostra dedicata alle Avanguardie Artistiche a Napoli tra gli anni ’50 e ’60. In esposizione opere storiche di Renato Barisani, Guido Biasi, LUCA (Luigi Castellano), Lucio Del Pezzo, Sergio Fergola, Mario Persico e Guido Tatafiore.
La preziosa gemma di un territorio è l’arte
Quanto Andrea Della Rossa, curatore della mostra “Avanguardie artistiche a Napoli negli anni ’50 e ’60”, abbia caro questo periodo e gli artisti che lo animano, tanto da dedicar loro una seconda esposizione presso lo spazio napoletano Area24, lo si può riscontrare nella sublime qualità delle opere, scelte con amoroso desiderio. Del “Gruppo 58” gli artisti presenti sono Lucio del Pezzo, Mario Persico e Guido Biasi. Ma il racconto inizia sette anni prima:
È del 1951 il dipinto di Guido Tatafiore, napoletano come tutti i pittori in mostra, e ciò che colpisce della sua astrazione geometrica, tagliata in forme colorate senza curve, è un contrasto oggettuale che trasforma la piatta superfice rivelando il gioco ‘occupazionale’ compositivo; quattro livelli ritagliano un proprio spazio in una profondità mentale, da una sola superfice, e sono: il fondo marrone, giallo e grigio scuro; la forma irregolare nera con triangoli bianchi; il riquadro con due verdi scuri, rosso e nero; e infine il taglio ampio del grigio chiaro, all’angolo destro in basso.
Da questo dipinto si salta alla fine degli anni Cinquanta, precisamente nel 1957, con un’opera “Nucleare” di Guido Biasi, che bene annuncia l’infinitesimo come mondo di partenza di una nuova rappresentazione umana: l’infinitesimo è quindi una grotta ignota che offre i suoi reperti, simboli perduti, materie in grumi, frammenti ritrovati (le manine aperte raggruppate), tracce come percorsi che implicano movimenti e storie che risalgono all’uomo (“Lieu perdu”, ‘61); in “Ritratto equivoco di un alchimista”, del ’62, siamo portati in un mondo di immagini rupestri dall’origine sconosciuta, in un’esecuzione di finissima elaborazione, in uno spiccato realismo che va dal fondo alla linea.
Torniamo indietro al 1958 con il dipinto di Fergola “Studio n.13”, nel quale l’assetto ‘Nucleare’ è una lotta: il fondo nero materico risucchia, nel proprio vuoto concreto, il dripping dorato con la sua gravità spaziale.
Mario Persico crea popolazioni in attesa, colloquianti, dorate anch’esse, emerse su un piano in un cielo notturno che, aprendosi, resta grotta che le contiene ancora, in voli di linee e incrostazioni liriche assai gentili e sognanti, come digressioni Ernestiane; in “Personaggio con due finestre” genera un robot pieno di rèveries materiche che come in un fregio continuo sussultano sorprese, disegnando in una larga fascia la figura la cui testa è un 2, con un occhio di Horus che vola lì accanto (ecco un’alternativa a Dubuffet!). Pieno di filamenti biologici è il corpicino massiccio contenente un cosmo di concretezze oggettuali misteriose, come il senso sfuggente di una J irraggiante in campo nero dentro di lui (“Bimbo con il cuore ipsilon”, ’61). Il realismo del muro che regge la “Cronaca di un re braccato”, del ’62, emana una profonda goduria sensibile.
LUCA (Luigi Castellano): una rete nera giocata morbida nell’ombra del colore con accensioni rosse e blu (”S.T arcipelago della memoria, ’60), e, in un’altra opera, il nero del reticolato, indurito, su differente nero del fondo, crea una seduzione percettiva della presenza (“O guarracino”, ’60). La trama non fittissima, calma, ondulata in pieghe, è liberazione e costrizione d’aria: la materia ha quindi un respiro (forse questo è già un superamento dell’unità drammatica materiale nelle opere degli anni Cinquanta di Dubuffet).
Delle tre opere del 1961, di Renato Barisani, sconcerta la bellezza delle diverse matericità dei fondi, dove presenze estranee e complesse si fissano, anche loro nell’aspetto fortemente dissimili, creando eclettismi universali: in un grigio luminoso, dalla crosta fina e friabile, porosa al tocco voluttuoso dello sguardo che desidera la mano, emergono caselle lucide carbonizzate in parte, inquietanti quanto attiranti anch’esse (“Quasi scultura”). In “Segni sulla sabbia”, su un fondo sabbioso di profondità smeraldo-cupo, si traccia una grafia antropologica in nero bianco verde e giallo, come se un gessetto lavorasse sulle asperità di un piano non del tutto levigato epperò spianato. La sabbiosità ferrosa del fondo è uniforme in “Fascia metallica”, e lì passa, scavata e orizzontale, con bagliori neri verdi e bianchi, una zona di memoria terrestre (lo è anche l’isola simile a un sasso o a un osso, rimasta lì immersa e galleggiante) che svuota la materia del fondo.
Per Lucio del Pezzo, l’organico e il meccanico si innestano estranei e corporei, polposo il primo, volume grigio sezionato il secondo: un esofago che scende in una sacca, con degli ingranaggi accerchiati e assicelle che scivolano dietro la sua centralità, intrappolati tra esso e il fondo: l’artista, qui, in “Il giorno appartiene a qualcuno”, del ‘61, si interroga su cosa sia l’essere vivente, lo spazio vivente, all’interno di un uomo, sondando il legame tra la persona e il pianeta che lo contiene, che gli sta addosso.
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